lunedì 14 gennaio 2008

14 gennaio 2008

E' più importante il percorso (vissuto) o la meta (cambiamento)? Vi riporto, quali esempi di vissuto, alcuni brani tratti dal libro Persecutori e Vittime. Alcuni tra coloro che capitano in questo blog potranno riconoscersi nello spaesamento e in una certa misura, nella sofferenza descritta in questo libro.

"Tobie Nathan distingue due tipi di trauma: ci sono situazioni in cui le risorse personali non sono sufficienti a controllare le spinte pulsionali, e altre in cui si su­bisce una deliberata opera di distruzione dell'involucro attraverso la rottura dei legami permanenti tra gli eventi psichici e gli universi di riferimento [omissis] Le vittime della tortura rappresentano un paradigma che mette a nudo i limiti del nostro sistema di pensiero in campo psicopatologico, un sistema che mira a individuare il sintomo come "produzione della psiche" di un paziente. Nella psicopatologia occidentale, il sintomo viene considerato produzione individuale, e il senso che il terapeuta gli attribuisce è legato sempre all'interno della psiche della persona. Ma quando il disturbo è legato all'utilizzo della tortura, ed è quindi conseguenza diretta di un processo di influenza, è necessario considerare anche un terzo elemento, di natura extrapsichica: è indubbio infatti che esiste un'intenzione che precede la sofferenza del paziente." (pag. 47)

 

"Alfonso è latinoamericano, e vive in Francia da vent'anni. [omissis] La moglie e i figli non sanno nien­te dell'inferno che sta passando. Lui nasconde, dissimula, ma, dentro, sta cedendo. Chi gli sta intorno comincia a trovarlo ira­scibile; non riesce più a giocare con i bambini senza spazientir­si. Del resto, non ha più tempo di parlare con la moglie, di interessarsi dei figli, è ossessionato dal corso e da altre immagini che, dopo vent'anni, credeva di aver dimenticato. Ha consultato un medico generico che, dopo avergli prescritto calmanti, sonniferi e antidepressivi che non hanno sortito alcun effetto, lo ha indi­rizzato alla psicoterapia.
Al primo appuntamento Alfonso sfoggia un abito impeccabi­le, è brillante e intelligente. Denuncia dei disturbi della memo­ria, e mi parla del suo passato e degli anni di detenzione come se riguardassero un altro. Lui stesso afferma che "è acqua passata", e che si è rivolto a me per quello che gli sta capitando adesso. De­sidera un "sostegno pedagogico" perché, dice, "il pensiero gli sfug­ge". Lo lascio parlare, anche se sono piena di rabbia, non contro di lui ma contro quello che ci impedisce di andare oltre, di "par­lare chiaro". Devo agire contro quello che sento come un "pa­rassita" tra noi. Lo interrompo nel mezzo di una frase che è co­me se arrivasse da molto lontano, chiedendogli:
"Mi faccia delle domande!".
Sorpreso, si blocca e mi chiede:
"A lei?".
"Sì, a me."
"Su che cosa?"
"Su qualsiasi cosa... qualsiasi cosa che lei vorrebbe sapere di me."
Alfonso sospira, cambia posizione nella sua poltrona, accen­de una sigaretta, guarda davanti a sé, poi fissa gli occhi sul tavo­lino che ci separa e sorride. All'inizio, non gli stacco gli occhi di dosso. Non mi muovo, aspetto. Poi il mio sguardo si perde nel vuoto. Dietro di lui c'è una finestra. Vedo che fuori fa freddo. Be­vo un sorso di caffè senza zucchero, lo aspetto.
"Lei è psicologa, giusto?"
"Esatto."
"Dove ha studiato? È lunga, psicologia?"
Parliamo del corso di studi, delle materie insegnate. Alfonso fa dei commenti, è interessato alla psicopatologia degli adulti, a chi insegna quella materia all'università. Chi sono? E gli studen­ti di psicologia, chi sono? Il tempo passa, affrontiamo la questio­ne della formazione dei terapeuti, come viene pensata (o meno) durante il percorso universitario francese. Alfonso si interroga su quello che gli studenti possono fare con tutto quello che impa­rano di psicologia. "La porta è aperta a tutti," dice.
Sì. Chi cura può anche uccidere.
"O fare impazzire. È la stessa cosa..." Improvvisamente Alfon­so smette di parlare. Se ne va con la mente da qualche altra parte.
"È quello che lei ha vissuto in Cile, vero?"
Alfonso si lascia sfuggire un risolino sarcastico e disincanta­to. Si raddrizza nella poltrona, e per la prima volta durante la seduta allunga le gambe. Sembra lasciar intendere di conoscere be­ne l'argomento.
Solo allora racconta della sua diffidenza verso psicologi e psi­chiatri. Durante gli interrogatori, Alfonso è stato ipnotizzato da uno psicologo. Non sa che cosa ha detto sotto ipnosi, né che co­sa gli è stato detto. Come hanno fatto per sottrarlo al suo stato di vigilanza? Non riesce a capacitarsene. Dopo quei fatti, non si fi­da più di nessuno, soprattutto delle persone a cui, d'un tratto, po­trebbe sentirsi vicino. Tuttavia, gli piace molto discutere delle cose umane, e la psicologia lo interessa parecchio. Le sedute con Alfonso da quel giorno assunsero la forma di discussioni intel­lettuali, in cui si mescolavano esperienza personale e riflessioni sul mondo e i suoi abitanti. Alfonso voleva capire, non si stanca­va di analizzare il pensiero di quanti mettono le proprie compe­tenze al servizio del potere.
Lo schema terapeutico è cosa negoziabile. Alfonso, senza sa­perlo, era rimasto vent'anni con questo tarlo sempre vivo nel suo intimo. In coincidenza con una situazione che gli aveva ricorda­to quell'esperienza, il processo che era stato costretto a subire si era riattivato. È impensabile che qualcuno che sia stato delibe­ratamente sottoposto a un processo di influenza possa accomo­darsi con completa fiducia all'interno di un quadro simile." (pagg.52-54)

I link rimandano a siti commerciali (non perdetevi nella scelta tra l'uno o l'altro). Consiglio la lettura (ad alta voce se necessario):

Françoise Sironi
Persecutori e vittime
Feltrinelli Editore, 2001